lunedì 8 maggio 2017

Abbraccio forte

E' la quarta dal CD "Jesus on line" del 2002 pubblicato dal Messaggero di Sant'Antonio da Padova. La scrissi per una manifestazione a cui poi non partecipai. Il tema a cui dovevamo ispirarci era Dio Padre. Infatti, prima del giubileo del 2000, per tre anni ci fu l'approfondimento ogni anno di una delle Persone Divine: il 97 fu l'anno di Gesù, il 98 l'anno allo Spirito Santo e il 99 l'anno dedicato a Dio Padre. Mi ritrovai così con questa canzone, che non era stata pensata per arrangiarla "dance", che allora, come genere, non era neanche nell'anticamera del mio cervello. L'idea mi venne allorquando misi in cantiere il CD "Jesus on line" fra il 2000 e il 2001. Per esso scelsi alcune canzoni che già avevo inventato, come: "Uno per essere Vita", "Ut unum sint", "Abbraccio forte", ed altre che inventai ad hoc come "Angelo tu", "M'ama cic redo" e "Jesus on line".
Fu un esperimento, e tale è rimasto. Il genere dance, anche se piace molto, non è mio e non mi fa esprimere al 100%. Per parlare di Dio Padre, cosa c'è di più bello se non la parabola de figliuol prodigo? E così a quella mi ispirai.

Ascoltiamola.

Abbraccio forte dal CD Jesus on line 2002

Entriamo nel testo.

Il titolo: "Abbraccio forte". Mi sembra che in tutta la parabola del figliuol prodigo, la centralità sia tutta nell'abbraccio del Padre al figlio ritornato dopo aver sciupato l'eredità, che aveva ricevuto. Così tutto il ritornello cresce fino all'abbraccio forte del Padre. Di conseguenza la canzone ha poi avuto come titolo: abbraccio forte.

La prima strofa.

Sì, mi ricordo era d'autunno,
Il giorno incominciava e già malinconia.
T'avevo perso, tra vecchie storie, filosofie, fantasie.

 Tre righe per dire lo smarrimento in cui si è cacciata l'umanità postmoderna. Una umanità che entra in crisi con le sue stesse idee. Oramai nessuna ideologia è tanto grande da poter interpretare la realtà e l'umanità è smarrita. Così scrive Tonino Cantelmi (http://notizie.tiscali.it/socialnews/cantelmi-/774/) in un articolo molto conciso e chiaro:

Esserci, esserci-con, esserci-per: questa è la “progressione magnifica” che permette di partire da un Io (l’esserci), per passare ad un Tu (l’esserci-con) e infine giungere ad un Noi (l’esserci-per), dimensione ultima e sola che apre alla generatività, alla creatività ed all’oblatività.

Il punto di partenza della “progressione magnifica” è l’esserci, che in ultima analisi richiama all’identità. Nella “cultura del narcisismo”, per usare la definizione di Christopher Lash, anche le espressioni più progressiste dell’identità sono contaminate da una straordinaria enfatizzazione dell’ego, dalla elefantiasi dei bisogni di autoaffermazione e da una sorta di emergenza di uomini e donne “senza qualità”, come direbbe Robert Musil.

Ma cosa vuol dire “esserci” nella società tecnoliquida? Esserci vuol dire rinunciare ad una identità stabile, per entrare nell’unica dimensione possibile: quella della liquidità, ovverossia dell’identità mutevole, difforme, dissociata e continuamente ambigua di chi è e al tempo stesso non è. In fondo la tecnologia digitalica consente all’uomo ed alla donna del terzo millennio di essere senza vincoli, di tecnomediare la relazione senza essere in relazione, di connettersi e di costruire legami liquidi, mutevoli, cangianti e in ogni istante fragili, privi di sostanza e di verifica, pronti ad essere interrotti. Cosicché si è passati dall’uomo-senza-qualità di Musil all’uomo-senza-legami di oggi in una sorta di continuità-sovrapposizione che viene a definire il nuovo orizzonte del tema identitario. Ed ecco che l’esserci è minato alla sua origine. La crisi dell’identità maschile e femminile, per esempio, ne è l’espressione più evidente. L’identità, cioè l’idea che ognuno di noi ha di se stesso e il sentirsi che ognuno di noi sente di se stesso, è dunque in profonda crisi, e il nuovo paradigma è l’ambiguità.

La crisi dell’esserci ha una prima conseguenza. Se all’uomo d’oggi è precluso il raggiungimento di una identità stabile, che si articola e si declina nelle varie dimensioni, come in quella psicoaffettiva e sessuale, la conseguenza prima è che l’esserci-con (per esempio la coppia) assume nuove e multiformi manifestazioni. L’esserci-con non è più il reciproco relazionarsi fra identità complementari (maschio-femmina per esempio), sul quale costruire dimensioni progettuali nelle quali si dispiegano legittime attese esistenziali, ma diviene l’occasionale incontro tra bisogni individuali che vanno reciprocamente a soddisfarsi, per un tempo minimo, al di là di impegni reciproci e di progetti che superino l’istante. L’esserci-con è fatalmente legato alla soddisfazione di bisogni individuali che solo occasionalmente e per aspetti parziali corrispondono. In altri termini l’incontro tra due persone è fondamentalmente basato sulla soddisfazione narcisistica, individuale e direi solipsistica di un bisogno che incontra un altro bisogno, altrettanto narcisistico, individuale e solipsistico. Questo incontro si dispiega per un tempo limitato alla soddisfazione dei bisogni e l’emergere di nuovi e contrastanti bisogni determina inevitabilmente la rottura del legame e la ricerca di nuovi incontri. La fragilità dell’essere-con dei nostri tempi si evidenzia attraverso la estrema debolezza dei legami affettivi, che manifestano una ampia instabilità ed una straordinaria conflittualità. Se l’identità è liquida, anche il legame interpersonale è liquido, cangiante, mutevole, individualista e fragile. L’uomo del terzo millennio sembra rinunciare alla possibilità di un futuro e concentrasi sull’unica opzione possibile, quella del presente occasionale, del momento, dell’istante.
Fatalmente, il trionfo dell’ambiguità identitaria, la rinuncia al ruolo ed alla conseguente responsabilità, il ridursi dell’esserci-con all’istante ed al bisogno, fatalmente tutto questo mina l’esserci-per, cioè la dimensione generativa e oblativa dell’uomo e della donna. Per esempio, se decliniamo tutto ciò nell’ambito psicoaffettivo e psicosessuale, la rinuncia all’esserci (identità sessuale e relativi ruoli) non può non trasmettersi in una inevitabile mutazione critica della dimensione coniugale (esserci-con), che a sua volta precipita in una crisi senza speranze la dimensione genitoriale (esserci-per). Ed infatti la transizione al ruolo genitoriale sembra divenire una sorta di utopia: la rinuncia alla genitorialità o il suo semplice rimandarlo nel tempo sono un fenomeno sociale tipico dei nostri tempi. Perciò identità liquide fanno coppie liquide, che a loro volta fanno genitori liquidi, dove per liquido possiamo intendere molte cose, ma una soprattutto, la debolezza del legame.

La “progressione magnifica”, di cui parlavo all’inizio, diviene dunque una progressione “liquida”. Ma il punto di partenza è nell’esserci, ovvero nel tema dell’identità. Nell’epoca di Facebook, l’identità si virtualizza, come anche le emozioni, l’amore e l’amicizia. La virtualizzazione è la forma massima di ambiguità, perché consente il superamento di vincoli e di confronti, aprendo a dimensioni narcisistiche imperiose e prepotenti.

Eppure qualcosa non funziona.

Lo avvertiamo dall’incremento del disagio psichico, dal sempre più pressante senso di smarrimento dell’uomo tecnoliquido, dalla ricerca affannose di vie brevi per la felicità, dall’aumento del consumo di alcol e stupefacenti negli stessi opulenti ragazzi della società di Facebook, dall’affermarsi di una cupa cultura della morte, dall’inquietante incremento dei suicidi, dal malessere diffuso. Qualcosa dunque non funziona: la liquidità dell’identità, con tutte le sue conseguenze, non aumenta il senso di felicità dell’uomo contemporaneo. Alcuni studi sul benessere fanno osservare che la felicità non è correlata con l’incremento delle possibilità di scelta. Questi dati fanno saltare una convinzione che sembrava imbattibile. La felicità dunque non è correlata con l’incremento delle possibili scelte dell’uomo (una visione ovviamente molto legata al capitalismo), ma gli stessi studi correlano la felicità con il possedere invece un “criterio” per scegliere. Avere un criterio per scegliere rimanda ad altro: avere un progetto, delle idee, una identità.

Ed ecco che il cerchio si chiude: il tema della liquidità è sostanzialmente il tema della rinuncia ad avere criteri (cioè dimensioni di senso). Ma questa rinuncia ha un prezzo: l’infelicità. Ecco perché la “magnifica progressione” mantiene anche oggi, e direi soprattutto oggi, un alto valore, proprio per il suo portato anti-liquidità. Costruire dimensioni identitarie stabili e non ambigue, instaurare relazioni solide e che si dispiegano lungo progetti esistenziali che consentono l’apertura alla generatività ed all’oblatività, sono ancora, in ultima analisi, l’unico orizzonte di speranza che si apre per l’uomo del terzo millennio, immerso nel cupo e doloroso paradigma della tecnoliquidità.
(fonte: http://notizie.tiscali.it/socialnews/articoli/cantelmi-/5497/la-crisi-dell-identita-nella-societa-postmoderna-tecnoliquida/)

Seconda strofa

Ma tu aspettavi il mio ritorno
e mio fratello, anche lui andato via.
Il tuo cuore brilla nel vederci, ora,
con il tuo volto, con il Risorto.

L'uomo s'è smarrito e con la sua sola razionalità non trova vie di scampo, vie redentive. Ci vuole qualcuno che spezzi la storia da qualche parte e che dal di fuori faccia breccia in questa sfera di cristallo in cui siamo stati reclusi. Il Verbo, dal Cielo, umanandosi ha infranto in un punto e ha aperto una VIA, una Porta, un ingresso verso qualcosa di più alto. E' venuto a dirci che siamo Anime più che corpi. Anime immortali, che hanno dimenticato il Cielo da cui provengono per una colpa che ha costretto il creatore a isolare il male, chi lo ha causato (Lucifero) e chi lo ha consumato (la prima umanità della storia degli uomini). E poi non solo ha ridato luci sull'esserci, ma ci ha redenti con la sua immolazione, perché solo un sacrificio salutare, d'amore puro poteva sanarci dall'oppressione del male. Un sacrificio umano-divino tanto grande quanto immenso, che ci fa conoscere l'immane dolore dato a Dio col nostro aderire al male. Non possiamo più dirci ignari e continuare a cercare un senso per essere ed esserci. La storia, quello squarcio lo dice in lungo e in largo e solo chi non vuol vedere non vede e chi non vuol credere non crede. Segni e segni sono stati dati all'umanità ma al solito i cuori e le menti chiusi alla Luce, si comportano come il Figlio che prende l'eredità e la sciupa. Tante volte anche noi addetti ai lavori (credenti e impiegati nei vari ministeri), siamo come il figlio che è rimasto a casa, ma che col cuore è lontano dal Padre tanto quanto il prodigo. Non ha misericordia verso il fratello che ritorna e verso il Padre che lo accoglie. Dovremmo prendere su di noi "il peccato del fratello" e farlo proprio. Così scriveva Chiara Lubich:

In questo modo faremo un'esperienza mistica. Nel perdonare ritroveremo il nostro esserci, essere-con, essere-per... accanto al Padre e accanto al fratello e ci ritroveremo anche ri-abitati dall'Amore e finamente potremo gridare con gioia: "E canteremo da liberati amati, ritornati" (Ponte al ritornello).

Ritornello

Sei tu -Padre. Sei tu-Padre.
Sei tu-Padre, mai più lontani, mai più.
Padre mio, Papà, occhi limpidi. Padre mio,
Papà, dal cielo semplice.
Padre mio, papà, abbraccio forte, forte Abbà
.

 Che sarà questo incontro? eppure mi sembra d'averlo già fatto. Da piccolo feci un sogno. Mi trovavo nella soffitta di una mia vicina. Mentre guardavo fuori il giardino e il cielo, attraverso un lucernario, mi ritrovavo ai piedi di un trono dove era seduto un anziano signore. Le mie piccole mani toccavano le stoffe alle ginocchia mentre io gli ero inginocchiato davanti e quel tatto lo ricordo ancora, mi sembrava una stoffa come fatta di un metallo sconosciuto e dai colori vivissimi. I suoi occhi erano pieni d'amore e lucidi di gioia. Intorno al trono vi erano piccoli angeli, e tutto era d'oro bellissimo. Questo signore, mi diceva delle cose e mi raccomandava di non dimenticarle. Quando mi svegliai al mattina, di corsa andai dalla mia vicina e salii in soffitta con la speranza di rivedere quanto avevo visto in sogno e provai a ricordare quanto avevo ascoltato, ma niente non mi ricordavo più le bellissime parole. 
Quante volte ho ripercorso quel sogno. Un giorno mentre leggevo gli scritti di Maria Valtorta, Gesù le fa capire che alcune anime, possono ricordare sprazzi di Paradiso. Maria Santissima, non essendo inficiata dal peccato, ricordava perfettamente il Paradiso e l'attimo in cui era stata creata, per cui viveva sempre in questi ricordi e spesso per causa di essi andava in estasi. Maria credeva fossero cose che tutti potevano avere, non sapeva che per Lei era tutto più speciale. 
Io non so se il mio sia stato solo un sogno o addirittura un ricordo del Cielo avvenuto in un sogno, certo è che col senno di poi, la vocazione al sacerdozio, la mia risposta e la fatica di essere fedele all'Amore, mi riportano sempre lì, davanti a Dio Amore e potergli dire con la Parola di Gesù: Abbà Padre ti amo.

Terza strofa

Sì, mi ricordo, era un inferno,
tutto sembrava che ci morisse lì.
T'avevamo perso tra le illusioni d'esser capaci, da soli, di capire.

 Lo smarrimento è già un inferno, beato chi trova la VIA.  Nell'Evangelo come mi è stato rivelato" ho trovato questa risposta di Gesù a uno che si chiedeva se siano pochi i salvati: 

Un altro chiede: «Signore, sono pochi quelli che si salvano?».
«Se l'uomo sapesse condursi con rispetto verso se stesso e con amore reverenziale a Dio, tutti gli uomini si salverebbero, come Dio lo desidera. Ma l'uomo non procede così. E, come uno stolto, si trastulla con l'orpello invece di prendere l'oro vero. Siate generosi nel volere il Bene. Vi costa? In questo è il merito. Sforzatevi di entrare per la porta stretta. L'altra, ben larga e ornata, è una seduzione di Satana per traviarvi. Quella del Cielo è stretta, bassa, nuda e scabra. Per passarvi occorre essere agili, leggeri, senza pompa e senza materialità. Occorre essere spirituali per poterlo fare. Altrimenti, venuta l'ora della morte, non riuscirete a varcarla. E in verità si vedranno molti che cercheranno di entrarvi senza potervi riuscire, tanto sono obesi di materialità, infronzolati di pompe mondane, irrigiditi da una crosta di peccato, incapaci a piegarsi per la superbia che fa loro da scheletro. E verrà allora il Padrone del Regno a chiudere la porta, e quelli fuori, quelli che non avranno potuto entrare al tempo giusto, stando fuori busseranno all'uscio gridando: "Signore, aprici. Ci siamo anche noi". Ma Egli dirà: "In verità Io non vi conosco, né so da dove venite". Ed essi: "Ma come? Non ti ricordi di noi? Noi abbiamo mangiato e bevuto con Te e noi ti abbiamo ascoltato quando Tu insegnavi nelle nostre piazze". Ma Egli risponderà: "In verità Io non vi riconosco. Più vi guardo e più mi apparite fatti sazi di ciò che Io ho dichiarato cibo impuro. In verità più Io vi scruto e più vedo che voi non siete della mia famiglia. In verità, ecco, ora vedo di chi siete figli e sudditi: dell’altro. Avete per padre Satana, per madre la Carne, per nutrice la Superbia, per servo l'Odio, per tesoro avete il peccato, per gemme i vizi. Sul vostro cuore è scritto: 'Egoismo'. Le vostre mani sono sporche delle rapine fatte ai fratelli. Via di qui! Lontani da Me, voi tutti, operatori di iniquità".
E allora, mentre dal profondo dei Cieli verranno fulgidi di gloria Abramo, Isacco, Giacobbe e tutti i profeti e giusti del Regno di Dio, essi, quelli che non hanno avuto amore ma egoismo, non sacrificio ma mollezza, saranno cacciati lontano, confinati al luogo dove il pianto è eterno e dove non c'è che terrore. E i risorti gloriosi, venuti da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno, si aduneranno alla mensa nuziale dell'Agnello, Re del Regno di Dio. E si vedrà allora che molti che parvero i "minimi" nell'esercito della Terra saranno i primi nella cittadinanza del Regno. E così pure vedranno che non tutti i potenti d'Israele sono potenti in Cielo, e non tutti gli eletti dal Cristo alla sorte di suoi servi hanno saputo meritare di essere eletti alla mensa nuziale. Ma bensì vedranno che molti, creduti "i primi", saranno non solo ultimi, ma non saranno neppure ultimi. Perché molti sono i chiamati, ma pochi quelli che dell'elezione sanno farsi una vera gloria». 

La ricerca della VIA, VERITA' e VITA, è una fatica che costa sangue e lacrime, ossia la salita del Calvario e la crosifissione. Ma nella cultura di oggi, che inneggia a ogni egoismo e superbia chi vorrà portare la propria croce e seguire Gesù per essergli discepolo?  Eppure si fa esperienza ogni giorno, che senza Dio la storia si chiude su noi stessi lasciandoci senza futuro. E in tutti i 2000 anni di cristianesimo ancora l'umanità arranca al buio senza prospettive redentive.

Quarta strofa

Ma Tu sapevi che senza Te
non c'è futuro, non c'è più vita vera.
Il tuo cuore brilla nel vederci, nuovi,
con il tuo volto, con il Risorto...
E canteremo da liberati amati, ritornati...

 Dio sa che senza di Lui siamo persi eppure sopporta di buon grado la nostra ostinazione a voler far da soli, come se fossimo noi gli autori della creazione... come se il vaso potesse dire al vasaio come crearlo... Eppure nella storia della salvezza e nella continua graduale rivelazione Dio ci fa sapere:

13Sei tu che hai creato le mie viscere
e mi hai tessuto nel seno di mia madre.
14Ti lodo, perché mi hai fatto come un prodigio;
sono stupende le tue opere,
tu mi conosci fino in fondo.
15Non ti erano nascoste le mie ossa
quando venivo formato nel segreto,
intessuto nelle profondità della terra.
16Ancora informe mi hanno visto i tuoi occhi
e tutto era scritto nel tuo libro;
i miei giorni erano fissati,
quando ancora non ne esisteva uno.
17Quanto profondi per me i tuoi pensieri,
quanto grande il loro numero, o Dio;
18se li conto sono più della sabbia,
se li credo finiti, con te sono ancora.
13Sei tu che hai creato le mie viscere
e mi hai tessuto nel seno di mia madre.
14Ti lodo, perché mi hai fatto come un prodigio;
sono stupende le tue opere,
tu mi conosci fino in fondo.
15Non ti erano nascoste le mie ossa
quando venivo formato nel segreto,
intessuto nelle profondità della terra.
16Ancora informe mi hanno visto i tuoi occhi
e tutto era scritto nel tuo libro;
i miei giorni erano fissati,
quando ancora non ne esisteva uno.
17Quanto profondi per me i tuoi pensieri,
quanto grande il loro numero, o Dio;
18se li conto sono più della sabbia,
se li credo finiti, con te sono ancora. (dal Salmo 139)


Ritornello

Sei tu -Padre. Sei tu-Padre.
Sei tu-Padre, mai più lontani, mai più.
Padre mio, Papà, occhi limpidi. Padre mio,
Papà, dal cielo semplice.
Padre mio, papà, abbraccio forte, forte Abbà.

In questa "società senza padri", dove i padri sono banditi dall'orizzonte educativo, papa Francesco esorta: 

" “Padre” è una parola nota a tutti, una parola universale. Essa indica una relazione fondamentale la cui realtà è antica quanto la storia dell’uomo. Oggi, tuttavia, si è arrivati ad affermare che la nostra sarebbe una “società senza padri”. In altri termini, in particolare nella cultura occidentale, la figura del padre sarebbe simbolicamente assente, svanita, rimossa. In un primo momento, la cosa è stata percepita come una liberazione: liberazione dal padre-padrone, dal padre come rappresentante della legge che si impone dall’esterno, dal padre come censore della felicità dei figli e ostacolo all’emancipazione e all’autonomia dei giovani. Talvolta in alcune case regnava in passato l’autoritarismo, in certi casi addirittura la sopraffazione: genitori che trattavano i figli come servi, non rispettando le esigenze personali della loro crescita; padri che non li aiutavano a intraprendere la loro strada con libertà - ma non è facile educare un figlio in libertà -; padri che non li aiutavano ad assumere le proprie responsabilità per costruire il loro futuro e quello della società.

Questo, certamente, è un atteggiamento non buono; però come spesso avviene, si passa da un estremo all’altro. Il problema dei nostri giorni non sembra essere più tanto la presenza invadente dei padri, quanto piuttosto la loro assenza, la loro latitanza. I padri sono talora così concentrati su se stessi e sul proprio lavoro e alle volte sulle proprie realizzazioni individuali, da dimenticare anche la famiglia. E lasciano soli i piccoli e i giovani. Già da vescovo di Buenos Aires avvertivo il senso di orfanezza che vivono oggi i ragazzi; e spesso domandavo ai papà se giocavano con i loro figli, se avevano il coraggio e l’amore di perdere tempo con i figli. E la risposta era brutta, nella maggioranza dei casi: “Mah, non posso, perché ho tanto lavoro…”. E il padre era assente da quel figliolo che cresceva, non giocava con lui, no, non perdeva tempo con lui.

Ora, in questo cammino comune di riflessione sulla famiglia, vorrei dire a tutte le comunità cristiane che dobbiamo essere più attenti: l’assenza della figura paterna nella vita dei piccoli e dei giovani produce lacune e ferite che possono essere anche molto gravi. E in effetti le devianze dei bambini e degli adolescenti si possono in buona parte ricondurre a questa mancanza, alla carenza di esempi e di guide autorevoli nella loro vita di ogni giorno, alla carenza di vicinanza, alla carenza di amore da parte dei padri. E’ più profondo di quel che pensiamo il senso di orfanezza che vivono tanti giovani.
Sono orfani in famiglia, perché i papà sono spesso assenti, anche fisicamente, da casa, ma soprattutto perché, quando ci sono, non si comportano da padri, non dialogano con i loro figli, non adempiono il loro compito educativo, non danno ai figli, con il loro esempio accompagnato dalle parole, quei principi, quei valori, quelle regole di vita di cui hanno bisogno come del pane. La qualità educativa della presenza paterna è tanto più necessaria quanto più il papà è costretto dal lavoro a stare lontano da casa. A volte sembra che i papà non sappiano bene quale posto occupare in famiglia e come educare i figli. E allora, nel dubbio, si astengono, si ritirano e trascurano le loro responsabilità, magari rifugiandosi in un improbabile rapporto “alla pari” con i figli. E’ vero che tu devi essere “compagno” di tuo figlio, ma senza dimenticare che tu sei il padre! Se tu ti comporti soltanto come un compagno alla pari del figlio, questo non farà bene al ragazzo.

E questo problema lo vediamo anche nella comunità civile. La comunità civile con le sue istituzioni, ha una certa responsabilità – possiamo dire paterna - verso i giovani, una responsabilità che a volte trascura o esercita male. Anch’essa spesso li lascia orfani e non propone loro una verità di prospettiva. I giovani rimangono, così, orfani di strade sicure da percorrere, orfani di maestri di cui fidarsi, orfani di ideali che riscaldino il cuore, orfani di valori e di speranze che li sostengano quotidianamente. Vengono riempiti magari di idoli ma si ruba loro il cuore; sono spinti a sognare divertimenti e piaceri, ma non si dà loro il lavoro; vengono illusi col dio denaro, e negate loro le vere ricchezze.

E allora farà bene a tutti, ai padri e ai figli, riascoltare la promessa che Gesù ha fatto ai suoi discepoli: «Non vi lascerò orfani» (Gv 14,18). E’ Lui, infatti, la Via da percorrere, il Maestro da ascoltare, la Speranza che il mondo può cambiare, che l’amore vince l’odio, che può esserci un futuro di fraternità e di pace per tutti. Qualcuno di voi potrà dirmi: “Ma Padre, oggi Lei è stato troppo negativo. Ha parlato soltanto dell’assenza dei padri, cosa accade quando i padri non sono vicini ai figli… È vero, ho voluto sottolineare questo, perché mercoledì prossimo proseguirò questa catechesi mettendo in luce la bellezza della paternità. Per questo ho scelto di cominciare dal buio per arrivare alla luce. Che il Signore ci aiuti a capire bene queste cose."

(fonte: https://w2.vatican.va/content/francesco/it/audiences/2015/documents/papa-francesco_20150128_udienza-generale.html)

Ed ancora il Papa scrive e insegna:

"Ogni famiglia ha bisogno del padre. Oggi ci soffermiamo sul valore del suo ruolo, e vorrei partire da alcune espressioni che si trovano nel Libro dei Proverbi, parole che un padre rivolge al proprio figlio, e dice così: «Figlio mio, se il tuo cuore sarà saggio, anche il mio sarà colmo di gioia. Esulterò dentro di me, quando le tue labbra diranno parole rette» (Pr 23,15-16). Non si potrebbe esprimere meglio l’orgoglio e la commozione di un padre che riconosce di avere trasmesso al figlio quel che conta davvero nella vita, ossia un cuore saggio. Questo padre non dice: “Sono fiero di te perché sei proprio uguale a me, perché ripeti le cose che dico e che faccio io”. No, non  gli dice semplicemente qualcosa. Gli dice qualcosa di ben più importante, che potremmo interpretare così: “Sarò felice ogni volta che ti vedrò agire con saggezza, e sarò commosso ogni volta che ti sentirò parlare con rettitudine. Questo è ciò che ho voluto lasciarti, perché diventasse una cosa tua: l’attitudine a sentire e agire, a parlare e giudicare con saggezza e rettitudine. E perché tu potessi essere così, ti ho insegnato cose che non sapevi, ho corretto errori che non vedevi. Ti ho fatto sentire un affetto profondo e insieme discreto, che forse non hai riconosciuto pienamente quando eri giovane e incerto. Ti ho dato una testimonianza di rigore e di fermezza che forse non capivi, quando avresti voluto soltanto complicità e protezione. Ho dovuto io stesso, per primo, mettermi alla prova della saggezza del cuore, e vigilare sugli eccessi del sentimento e del risentimento, per portare il peso delle inevitabili incomprensioni e trovare le parole giuste per farmi capire. Adesso – continua il padre -, quando vedo che tu cerchi di essere così con i tuoi figli, e con tutti, mi commuovo. Sono felice di essere tuo padre”.

È così ciò che dice un padre saggio, un padre maturo.

Un padre sa bene quanto costa trasmettere questa eredità: quanta vicinanza, quanta dolcezza e quanta fermezza. Però, quale consolazione e quale ricompensa si riceve, quando i figli rendono onore a questa eredità! E’ una gioia che riscatta ogni fatica, che supera ogni incomprensione e guarisce ogni ferita.

La prima necessità, dunque, è proprio questa: che il padre sia presente nella famiglia. Che sia vicino alla moglie, per condividere tutto, gioie e dolori, fatiche e speranze. E che sia vicino ai figli nella loro crescita: quando giocano e quando si impegnano, quando sono spensierati e quando sono angosciati, quando si esprimono e quando sono taciturni, quando osano e quando hanno paura, quando fanno un passo sbagliato e quando ritrovano la strada; padre presente, sempre. Dire presente non è lo stesso che dire controllore! Perché i padri troppo controllori annullano i figli, non li lasciano crescere.

Il Vangelo ci parla dell’esemplarità del Padre che sta nei cieli – il solo, dice Gesù, che può essere chiamato veramente “Padre buono” (cfr Mc 10,18). Tutti conoscono quella straordinaria parabola chiamata del “figlio prodigo”, o meglio del “padre misericordioso”, che si trova nel Vangelo di Luca al capitolo 15 (cfr 15,11-32). Quanta dignità e quanta tenerezza nell’attesa di quel padre che sta sulla porta di casa aspettando che il figlio ritorni! I padri devono essere pazienti. Tante volte non c’è altra cosa da fare che aspettare; pregare e aspettare con pazienza, dolcezza, magnanimità, misericordia.

Un buon padre sa attendere e sa perdonare, dal profondo del cuore. Certo, sa anche correggere con fermezza: non è un padre debole, arrendevole, sentimentale. Il padre che sa correggere senza avvilire è lo stesso che sa proteggere senza risparmiarsi.

Una volta ho sentito in una riunione di matrimonio un papà dire: “Io alcune volte devo picchiare un po’ i figli … ma mai in faccia per non avvilirli”. Che bello! Ha senso della dignità. Deve punire, lo fa in modo giusto, e va avanti.

Se dunque c’è qualcuno che può spiegare fino in fondo la preghiera del “Padre nostro”, insegnata da Gesù, questi è proprio chi vive in prima persona la paternità. Senza la grazia che viene dal Padre che sta nei cieli, i padri perdono coraggio, e abbandonano il campo. Ma i figli hanno bisogno di trovare un padre che li aspetta quando ritornano dai loro fallimenti. Faranno di tutto per non ammetterlo, per non darlo a vedere, ma ne hanno bisogno; e il non trovarlo apre in loro ferite difficili da rimarginare.
La Chiesa, nostra madre, è impegnata a sostenere con tutte le sue forze la presenza buona e generosa dei padri nelle famiglie, perché essi sono per le nuove generazioni custodi e mediatori insostituibili della fede nella bontà, della fede nella giustizia e nella protezione di Dio, come san Giuseppe."

(fonte: https://w2.vatican.va/content/francesco/it/audiences/2015/documents/papa-francesco_20150204_udienza-generale.html)


Insomma non si può stare senza Padre, ossia senza Dio... ci smarriremmo...all'inferno...

Nessun commento:

Posta un commento